Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù
Dal Monastero Janua Coeli in Cerreto di Sorano (Grosseto).
Entrare nel Mistero è fare nostri i sentimenti di Gesù, è l’invito che papa Francesco ha rivolto nei giorni di preparazione alla Pasqua per vivere in profondità l’evento della passione-morte e risurrezione del Cristo. Sono le parole di san Paolo che risuonano e raggiungono la realtà che viviamo per svincolarci all’inganno delle nostre paure, dei timori sempre in agguato, delle esitazioni che sovente incombono come minacce e ci sottraggono creando tentennamenti di vario genere. L’ancoraggio alla realtà ci sottrae da noi stessi, dal nostro ripiegamento, dalla superficialità con cui possiamo considerare il pericolo di essere predati dal peccato, sottovalutando il dramma della debolezza, la profondità del nostro tradimento e ci consente di scoprirci ancora carichi di amore come Pietro verso di Lui. Capaci ancora di amare Cristo nonostante il nostro rinnegamento. Allora la realtà della nostra pochezza avanza verso di noi, senza spaventarci, con la lucidità di chi ci fa compagnia invocando un cuore libero di amarla e un’intelligenza capace di riconoscere le orme del Maestro. Pietro rammenta chi è il Signore soltanto quanto incontra il suo volto, quando le lacrime solcano, velano lo sguardo e si accorge di amarlo, che è il suo solo amore proprio appena rinnegato. Al tempo stesso scopre la preziosità dell’amore per Cristo e il male a Lui arrecato.
La coscienza del nostro male sgorga infatti dal nostro amore per Cristo, ne è una dimensione. In realtà, però, questo nostro amore per lui è suscitato in noi proprio da Cristo, che ci ha amato per primo e che si è donato per noi fino alla morte in croce. Il nostro amore ci appare allora come una risposta alla sua iniziativa d’amore che ci precede.
Ecco dunque ciò che accade nella celebrazione eucaristica: la contemplazione del sacrificio di Cristo ci rimette davanti al fatto più fondamentale di tutti, così semplice e così indispensabile, il fatto che siamo amati. La consapevolezza della serietà del nostro male è nello stesso tempo e prima di ogni cosa consapevolezza della serietà dell’amore di Cristo per noi. Ecco perché ci ritroviamo lieti. Perché siamo amati. E a tal punto! Cosa inspiegabile per il mondo: che dalla memoria della sofferenza possa nascere la pace.
Un secondo aspetto di cui si nutre la letizia cristiana è l’attaccamento a ciò che è sacro. Vorrei togliere per un momento questa parola dall’ambito religioso, che ce la può far apparire scontata. La prendo dal linguaggio dei rapporti, in un senso più quotidiano forse, ma altrettanto serio: una parola che indica ciò che c’è di più intimo tra una persona e un’altra, di più personale e prezioso. Qualcosa che non si può trattare con leggerezza o esporre a sguardi o commenti irrispettosi.
Quando ci rimettiamo davanti alla vita di Gesù e in particolare alla sua passione, se vediamo in esse un unico atto d’amore per noi, ci rendiamo conto che l’obbedienza di Cristo e le sue sofferenze sono infatti espressione di quanto di più intimo e personale è avvenuto tra Lui e noi. Siamo stati amati fino a questo punto. Ha dato la sua vita per noi. Può esserci qualcosa di più prezioso e inviolabile per me di questo sacrificio d’amore, può esserci qualcosa di più sacro di questo fatto che definisce il mio rapporto con Dio? Ha sofferto ed è morto per ridarmi la vita. In che vuoto vivrei, dunque, se mi dimenticassi di questo? Che tragica superficialità, che insensibilità imperdonabile sarebbe la mia smemoratezza?
I primi cristiani, forse perché erano più vicini nel tempo agli eventi di cui abbiamo fatto memoria, avevano talmente viva questa evidenza che identificavano la dimenticanza con la dannazione, sulla terra e nell’eterno. Guardiamo agli autori del Nuovo Testamento: c’è per loro un’eventualità da scongiurare in tutti i modi, quella di voltare le spalle al sacrificio di Cristo come se non fosse accaduto nulla. Mi ha di nuovo colpito quest’anno un brano della lettera agli Ebrei che il breviario ci propone per la meditazione del lunedì santo: […] se pecchiamo volontariamente dopo aver ricevuto la conoscenza della verità – si legge –, non rimane più alcun sacrificio per i peccati, ma soltanto una terribile attesa del giudizio (Eb 10, 26-27). Il peccato che non sarà perdonato è quello dell’infedeltà radicale di chi dimentica (e quindi rinnega), dopo averla conosciuta, la grazia del sacrificio di Cristo.
Fa tremare, questo testo, se lo leggiamo consapevoli della deriva del cristianesimo nel nostro continente europeo. L’apostasia di cui parla la lettera agli Ebrei è sotto i nostri occhi: svuotamento tragico della vita, personale e di interi popoli, che viene dal banalizzare la portata di questi eventi. Infatti la lettera rivolge con questo grido di allarme a chi avrà calpestato il Figlio di Dio e ritenuto profano – profano è il contrario di sacro – quel sangue dell’alleanza dal quale è stato un giorno santificato e avrà disprezzato lo Spirito della grazia (Eb 10, 29). Costoro, si legge in un altro passo della stessa lettera, per loro conto crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio e lo espongono all’infamia (Eb 6, 4-6).
È come se l’autore ci dicesse: Non accada mai, vi scongiuriamo, che dimentichiate! Non considerate profano ciò che invece è la cosa più sacra che esiste! Questa urgenza, espressa in modo così severo, è dunque ancora una volta il segno di una consapevolezza del tutto positiva. Sembrano parole gridate ai suoi compagni da un uomo salvato per miracolo dal precipitare in un burrone: State indietro! Io ho visto l’abisso. C’è un senso di spavento in questo grido. È infatti con spavento che prendiamo consapevolezza che Dio è morto per noi! Spavento di fronte all’abisso della nostra possibile distrazione. Ciò che è accaduto una volta per tutte tra Dio e noi è qualcosa di serio, di drammatico, di profondo. Come potrei dimenticarmene? È veramente un’alleanza segnata nel sangue. È un per sempre. È, appunto, ciò che abbiamo di più caro, di più sacro.
Se pensiamo a questo, dopo il primo attimo di confusione per il nostro male e per l’enormità del dramma di cui siamo parte, ecco dunque che può sgorgare in noi la gioia della gratitudine. Viene il desiderio di gettarci ai suoi piedi e di dirgli: Io ti appartengo per sempre, Cristo mio. Tu hai dato la tua vita per me. Siamo stati riscattati per sempre, siamo stati strappati agli inferi e siamo tenuti da una mano forte, alla quale nessuno potrà mai più sottrarci. Cristo è arrivato infatti al sacrificio supremo proprio per liberarci dalla paura, per metterci al sicuro nella pace.Questa è la nostra vera vocazione, la nostra unica chiamata, il ricordo di Lui. Questa memoria ci riempie di gratitudine, di senso di consolazione e di certezza, di desiderio di ridonarci, di vivere per lui ogni attimo che ci è concesso. Se sei morto per me, io voglio vivere per te che sei morto e risuscitato per me (cfr. 2Cor 5,15).
Ed ecco che ritroviamo di nuovo la radice della letizia che è cresciuta tra noi in questi giorni. Non abbiamo forse fatto l’esperienza che la nostra comunione si rinnova e riprende luce, quando ci rimettiamo insieme davanti a Cristo e, uscendo, dalla distrazione in cui solitamente viviamo, riprendiamo coscienza di chi lui è per noi? Questa è la vocazione, questa è la vita cristiana. Vivere questa memoria.
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